Si diplomò presso l'Istituto d'Arte di Ascoli Piceno conseguendo l'abilitazione in disegno e storia dell'arte. Successivamente insegnò decorazione plastica a CastelliL'Aquila e Ascoli Piceno[1].

Il suo itinerario artistico iniziò con esperienze di tipo figurativo per poi passare ad un'espressione che attinge alla Pop Art ed all'Optical art. Negli anni sessanta aderì al Movimento Immanentista di Ascoli Piceno[1].

Negli ultimi anni, tema centrale delle sue composizioni è il colore, in particolare le varie gamme di rossi, tra cui spicca il rosso pompeiano[1].

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L'occhio di Franco Testa, qui si mostra post-felliniano, nel senso che egli non assiste, come in Roma, all'istantanea disparizione per polverizzazione dell'antico dipinto parietale: a lui non interessano quelle megalografie,non le focalizza. Egli si sofferma sullo zoccolo delle pareti decorate, zumando dall'insieme al particolare più basso, cioè più infimo sia come collocazione ambientale, sia come porzione di supporto della decorazione nella sua globalità. Ma il significato di una museografia antiquaria, a rischio di una predestinazione fatalistica come quella felliniana resta intatta, ancorché non parafrasata, a futura memoria dell'artista. il Cinabro lucente di questi dipinti, che ha un più illustre sinonimo in quel rosso pompeiano che, ancora oggi, è citato quale archetipo di un cromatismo il quale indifferentemente, può celebrare la vita (Eros) e la morte (Thanatos), ci appare maculato da rare chiazze neutre e deformato da improvvisi rigonfiamenti simili a bubboni: una sorta di cancro del colore, contro il quale le filettature in controtono che definiscono i contorni dello zoccolo sembrano fragili argini. È sorprendente come facendo leva sulla memoria visiva di uno stereotipo culturale, quale la decorazione delle case pompeiane, l'artista solleciti la nostra riflessione su una quantità di fattori etici ed estetici, che attengono, usando l'identico metodo d'indagine, storico e sociologico, al vissuto del passato e a quello dell'oggi.

Carlo Melloni

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Di fronte una semiotica della nuova estetica delle realizzazioni di Franco Testa, un'acerba dialettica di possibili solleverebbe la questione dicotomica fra un vissuto intimo di passiva a-letheia, come attesa dell'azione subita del disvelarsi dell'essere, ed un altro di istantuale e attesa epoché attiva dell'oggettuale, operante dalla viva tracotanza del soggetto. L'Autore esprime la sofferenza dell'oggettualità, il muro, simbolo della limitante solidità del mondo, è alterità sine qua non dell'umano e del possibile. L'arte di Testa ne tenta la sartriana decostruzione nullificante, dietro i dardi della categoria temporale: egli alterna un'attenta-distratta attesa estenuante per la penetrazione della dimensione còndita. L'epoché fenomenologica, la husserliana sospensione dal dato presente, permette il mélange del soggetto con l'oggetto, vissuto emotivamente nell'intimo dell'Autore in vibrante possesso. La fessura muraria di Franco Testa suggerisce il valore della sofferenza creativa di Burri e delle fessure di Fontana: dominio ebbro e sensuale della dimensione non transitiva del mondo, che si offre al terreno transizionale dell'Arte, e peculiarmente in queste opere unicamente dietro le seduzioni del tempo umido, paziente e implacabile dell'Autore del rosso pompeiano, che suggerisce l'ascolto della vibrazione del possibile umano, costruito in bilico fra le dimensioni di inconscio e coscienza.

 Fulvia Minetti